È Mauro SCIASCIA che racconta …
I colleghi di mio padre non erano riusciti a convincere mia madre. Lei non aveva nessuna intenzione di separarsi da me, figlio unico, per mandarmi in un istituto che, per quanto lei potesse saperne, era semplicemente un orfanotrofio. Ci avevano provato anche quelli dell’associazione famiglie mutilati e caduti dell’Aeronautica (A.N.F.M.C.A.) di Bari, ma senza successo.
Nell’estate del ’53, era il mese di luglio, giunse a casa nostra una lettera da Roma firmata dal Generale Mongia che ci invitava a fargli visita presso la presidenza dell’ONFA per un semplice colloquio – nulla di impegnativo – su cosa l’Aeronautica poteva e desiderava fare per i suoi orfani.
La lettera d’invito era accompagnata da due moduli verdi già compilati che, consegnati alla biglietteria della stazione ferroviaria, ci avrebbe consentito di viaggiare gratis, e la cosa aveva la sua notevole importanza poiché, pur essendo papà volato in cielo da oltre tre anni, ancora non si vedeva l’ombra di una pensione che sarebbe arrivata solo dopo altri sette lunghi anni.
Il Generale Mongia fu affabile e affettuoso e, tenendomi sulle ginocchia, parlò a mia madre della possibilità di mandarmi in vacanza in montagna per un mese; lì avrei respirato l’aria pura che, oltre a farmi bene, mi avrebbe sicuramente stimolato l’appetito (ero inappetente e magro come un chiodo), mi sarei trovato benissimo a Monguelfo dove avrei potuto trascorrere il mese di agosto (turno femminile più i maschietti più piccoli) in compagnia di tanti altri bambini e senza dover affrontare alcuna spesa. La convinse a fare questa prova e, rimasti a Roma ospiti di parenti per qualche giorno, il trentuno di luglio sera, alla stazione Termini, salii sulla vettura riservata all’ONFA in coda al treno in partenza per il Brennero e San Candido.
Le accompagnatrici e accompagnatori che, sostituendosi alle nostre mamme, ci avrebbero condotti fino a destinazione, erano già a bordo. Accogliendoci ci chiedevano il nome, lo spuntavano dalla loro lista, e rassicuravano le mamme che, con le loro domande, tradivano la naturale ancia e qualche timore.
Davanti ai nostri finestrini, giù sul marciapiede della stazione , era un “via vai” di parenti che, nell’attesa della partenza, si prodigavano nel fornirci le ultime bevande per il viaggio, rinnovando per l’ennesima volta le raccomandazioni che andavano ripetendo da giorni. Mamma aveva gli occhi lucidi e mi parlava con il suo sorriso triste e tirato mentre, sulla punta dei piedi, tentava di prendermi la manina che sporgeva di poco dal finestrino abbassato; ero troppo piccolo per cogliere il turbinio di sentimenti che agitavano il suo animo, era la prima volta che si separava da me affidandomi in tutto e per tutto a degli estranei.
Salvo qualche incertezza per l’inedita situazione, l’atmosfera per la maggior parte dei bambini era abbastanza festosa; i veterani, nel rincontrarsi, ricordavano ad alta voce gli episodi degli anni precedenti con ripetute risate e gioiose esclamazioni, mentre “i nuovi” come me, un po’ spaesati e alla loro prima esperienza, ma comunque eccitati per la novità, iniziavano a fraternizzare con gli altri superando le titubanze iniziali.
Il treno partì e, dopo le mani agitate e i fazzoletti sventolati, in un minuto, mamme e parenti sparirono alla nostra vista e dai nostri pensieri. Quasi dimenticata mia madre, in quello che non fu il mio primo giorno di collegio, ma la mia prima notte onfina, per me bambino ebbe inizio un rapido processo di mutazione che in breve mi avrebbe trasformato in ometto seguendo un percorso comune a tutti gli Onfini.
L’eccitazione generale durò ancora per un po’, fare un viaggio in treno senza la mamma e in compagni di tanti altri bambini era un avvenimento particolare per tutti a quell’età. Io avevo sei anni e ne avrei compiuti sette dopo tre mesi. Furono spente le luci negli scompartimenti e la stanchezza ebbe il sopravvento sull’euforia.
Quando fece giorno eravamo nella valle dell’Adige e rimasi incantato alla vista delle montagne; nato e vissuto in un paese di mare, in un territorio pianeggiante come il Tavoliere delle Puglie, non avevo mai visto una montagna e là ce n’erano proprio tante! Dopo la stazione di Fortezza, dove le vetture per San Candido venivano sganciate dalle altre dirette al Brennero, e agganciate ad una tradizionale locomotiva a vapore, aveva inizio la linea a binario unico che s’inoltrava per la val Pusteria. Il treno rallentò quasi a passo d’uomo nel superare un ponte che non aveva spallette laterali, nessuna protezione; noi, incollati ai finestrini, guardavamo giù, impressionati, scorgendo soltanto il fondo di ciò che sembrava un burrone con la sensazione di viaggiare sospesi nel vuoto. (…. continua ….)