È Guido CATALOGNA che racconta …
(tratto da “C’era una volta … in collegio”)
La mia infanzia è chiusa dalle solide mura e oppressa dai grandi fabbricati dell’Istituto Aeronautico delle Cascine; se pure ho mai avuto un’infanzia.
“Ognuno sta solo sul cuore del mondo …” mi suggerisce Quasimodo; forse anche lui… penso. Qualcuno potrà credere che io scherzi o mi abbandoni a un dolce pessimismo letterario: forse gli altri che mi furono compagni in quegli anni ormai lontani avranno dell’Istituto un altro ricordo, forse anche giocoso; ma pure, io non mi rammento altro che gli alti muri che mi cingevano tutto attorno e che non mi lasciavano andare “fuori” che per qualche tempo, troppo fuggitivo per aver lasciato in me qualche orma.
La mia vita in collegio era monotona come le preghiere che si biascicano da millenni e che hanno ormai perduto il loro significato; ma la monotonia mi ha pure insegnato a gustare ogni piccola gioia, a scrutare ansiosamente qualcosa che mi facesse sentire di esistere realmente e di non essere semplicemente un minorato, rispetto agli altri innumerevoli ragazzi “di fuori”, che spiavo con la stessa curiosità con cui si guarda un essere superiore; minorato del padre.
Per chi non ha mai avuto un padre, come me, esso è sempre un idolo, a cui il grado militare aggiunge un’aureola di leggenda e di eroismo: esso è il “deus ex machina”, da cui viene ogni felicità e la gioia di vivere.
Coloro che avrebbero dovuto, nella gelida cortesia dell’Opera Nazionale Figli Aviatori, assumere un aspetto paterno, cercavano di aiutarci con qualche rara carezza o con un sorriso che non era fatto per noi: la divisa che indossavamo ci riportava sempre alla realtà……
Talvolta qualcuno d’essi ci conduceva a vivere una giornata “di famiglia” nella propria casa: solo allora, ricordo, il loro sorriso era aperto, e si affannavano tutto il giorno a chiederci se eravamo felici….; ma ho sempre creduto che nella loro cortesia fosse più un senso di pietà o quasi di riparazione ad un torto di cui essi non avevano colpa, che un sincero affetto.
Ma queste giornate erano oasi smarrite nella monotonia della vita del collegio. Ogni mattina che un campanello elettrico aveva scandito l’ora della sveglia, mi trovavo di nuovo sperduto nell’ampio stanzone, dove le doppie brandine militari, con i loro scheletri di ferro, mi ricordavano ancora una volta che la realtà era quella e non quella del sogno. “Mezz’ora di tempo per lavarsi, vestirsi e rifare le brande!” urlava nel lungo corridoio il nostro istruttore: passi affrettati, sbadigli, gli scherzi malvagi che sanno gli innocenti che conoscono le carezze della mamma poche volte all’anno, e poi pronti, con la divisa che ci eguagliava in tutto, tranne la faccia, quasi birilli incappucciati e rigidi……
Poi all’alzabandiera – c’era il Duce, “Viva il Duce…!” – c’era la Repubblica “Viva la Repubblica….!” ; ma piuttosto “Viva l’Italia…..!”
Mentre gli urli dei cadetti si smorzavano sotto le occhiaie dei portici, si andava in squadra e al passo militare a prendere la prima colazione, e poi nelle aule di studio.
Non ricordo più quante mosche cercai di prendere con la maldestra manina: quelle più veloci (furbe) di me mi ronzavano sul naso volando via, ma il più delle volte lasciavo volare libere le mosche catturate nella mano della Sorte, per un’ala (d’aereo) un po’ stanca, come quella delle mosche…..
Ma la fantasia era libera: essa vagava per tutto il mondo, faceva viaggi lunghissimi con la rapidità del colpo di cannone che annunciava il mezzodì fiorentino; ma spesso il mio dito tornava in quel punto della carta geografica dove ero radicato irresistibilmente; quello che per me era il centro del mondo, di un mondo crudele.
Alcuni compagni, futuri zoologi, laceravano le carni di alcune povere lucertole (uccise con uno spillo nella testa) per cercare in esse il segreto di quella vita, della vita che sconvolge altre vite: ma io in quel cuoricino, che ancora mandava un ultimo soffio di sangue e di ossigeno nel corpo dilaniato, vedevo un altro cuore, quello di mio padre; forse per questo non ho mai ucciso alcun animale senza provare un senso di ribrezzo e una nascosta paura….
Quando nel piccolo teatrino del collegio riuscivamo a ritenerci attori per qualche ora, quello che faceva la parte del principe ucciso era sempre uno dei più grandi fra noi, quasi una tacita intesa che ci trovava tutti d’accordo: il principe ucciso ci ricordava l’altro….
Ma talvolta veniva la madre, la madre di uno qualunque di noi: prima di essere la madre di…. essa era la nostra mamma; soltanto essa sapeva dare un poco del suo affetto a tutti, con ineguagliabile slancio.
Essa risvegliava tanti sogni assopiti nella vita del giorno: ci riportava alle nostre quattro pareti lontane, al volto della mamma che per noi era eguale a quello della Madonna, che guardavamo nella piccola cappella, senza pregare….
Anche la cella di punizione era una nostra amica: potevamo adornarla con la fantasia come la nostra casa lontana, e avere qualcuno da stringere al petto, mentre ancora ci addormentavamo; e il sogno ricominciava, allo stesso punto in cui ci aveva risvegliato il campanello elettrico, la voce dell’istruttore e il sordo rumore dei suoi passi, che si allontanavano lungo il corridoio deserto……