È Stefano VISIONE che racconta …
(tratto da “C’era una volta … in collegio”)
Introduzione
Non voglio tediarvi con storie lacrimevoli, relative alle mille sensazioni che hanno attraversato la pubertà e l’adolescenza, mentre vivevo chiuso (si fa per dire) nel collegio O.N.F.A. “Umberto Maddalena” di Cadimare, ma raccontarvi un piccolo avvenimento, che, nella situazione in cui è avvenuto, è parso tanto più grande … ma veniamo ai fatti.
Prologo
Correva l’anno 1974, ed un bel giorno fummo affascinati da un nuovo arrivo che colpì subito la nostra adolescente fantasia … una splendida canoa, in lucido mogano, che a noi parve lunghissima, con quattro posti per i rematori ed uno per il timoniere.
Le voci si susseguirono, pare che la slanciata imbarcazione fosse un dono dell’Accademia Aeronautica, della quale ci sentivamo i fratelli minori e scalognati. La poggiarono su dei bei supporti, nell’ampio ricovero sotto la palestra.
Capitolo I
Da quando la canoa era arrivata, era diventata quasi un’ossessione. Certo, in collegio facevamo tante cose, ma sempre le solite, ed una remata nel Golfo dei Poeti sarebbe stata una novità assoluta. Naturalmente i nostri Istitutori, gli Ufficiali ed il Comandante, il Col. Attilio Marchetti, non ci pensavano minimamente a mettere a rischio la nostra incolumità, con un giocattolo così rischioso, ma forse, almeno quella volta, i nostri superiori sottovalutarono la nostra determinazione.
Capitolo II
Essendo più o meno diciassettenni, non pianificammo l’azione con assoluta perfezione, ma non ci mancavano altre qualità, come spavalderia (chissà perché, a quell’età si parte dal presupposto che nulla di male possa accaderti), esperienza di vita, e l’innato coraggio onfino, condito da una buona dose di stupidità. Formammo l’equipaggio, Giannelli, Lovati, un altro che non ricordo, ed io ai remi, Arrigone al timone. Qualche giorno prima andammo sotto la palestra, celati agli sguardi altrui dalle strutture di cemento, e controllammo la barca, saggiandone anche il peso …. avremmo dovuto percorrere velocemente un tratto di una cinquantina di metri allo scoperto, prima di alare la barca in mare, ed essere beccati lì avrebbe compromesso tutto. Scegliemmo poi il giorno e l’ora, doveva essere domenica pomeriggio, con i pochi presenti in collegio a pisolare o a sentire le partite di calcio (che allora erano trasmesse solo alla radio). La barca era pronta, ed anche noi.
Capitolo III
Correvamo veloci e silenziosi e la barca sembrava leggerissima, eravamo tutti molto eccitati, ma accadde l’imprevedibile. L’unico punto da cui potevamo essere visti, dato che in giro non c’era anima viva, era dalle finestre della Palazzina Ufficiali, e l’unica persona alla quale non interessavano le partite era lì, dietro quelle maledette tendine che coprivano la finestra del secondo piano. Ci bastò un secondo per identificare la moglie del Comandante, e a lei bastò un secondo per dare l’allarme, ma ormai era fatta. Filammo la canoa in acqua, sistemammo i remi e in un batter d’occhio eravamo fuori dalla baia di Cadimare.
Capitolo IV
La canoa sembrava volare sull’acqua, ed arrivammo in breve a Le Grazie, un piccolo borgo tra Cadimare e Portovenere. Trascinammo la barca in secca e, contenti e soddisfatti, ci facemmo una passeggiata con cono gelato. Naturalmente, come spesso accade in questi frangenti, il tempo peggiorò e pioggia e vento cominciarono a strapazzarci, ed a malincuore prendemmo la via del ritorno. All’altezza di Fezzano, come si poteva immaginare, incontrammo la motovedetta del collegio, pilotata dal Sergente Maggiore Marrosu, ma la cosa più impressionante era la figura eretta in piedi sul ponte, scapigliata e zuppa di pioggia, con il viso terreo e un’espressione indimenticabile … il Comandante.
Epilogo
Su quello che accadde dopo la cattura, è meglio non entrare nei particolari. Non fu né la prima, né l’ultima ragazzata che combinammo, ma di sicuro è una delle poche che possano essere rese pubbliche. Non ci pentimmo mai.