È Sandro MEARDI che racconta …
(tratto da “C’era una volta … in collegio”)
Sebbene i ricordi si facciano sfocati e agli uni, se ne sovrappongano altri di analoghe avventure, la fuga di quella notte, quando correva l’inverno del 1973, resta impressa pur sempre nella mente. Quattro, o forse cinque furtivi individui, tra coloro i quali chi scrive, tempo mezz’ora dal contrappello, dismesso il pigiama celestino e indossati i soliti pastrani d’uniforme ancora lerci d’acqua di quella giornata uguale a tante altre, come il “pisciatoio d’Italia” l’aveva mandata, presero la via dietro al centralino. D’un balzo solo scalarono la rete, per ritrovarsi al buio in quella tratta di strada verso Portovenere che, tutta curve, unisce Fezzano a Cadamà. Ecco il lampeggio del fedele compagno di scuola esterno, unico in borghese, a raccogliere sulla sua Capri (chi non ricorda il Ford coupé di quegli anni?) quel manipolo di evasi, poco più che bambini, pronti a tutto pur di lanciarsi, stipati nella vettura, alla conquista della città di notte, per troppo tempo estranea durante il giorno.
Si va, si va, finalmente si va … viale Fieschi arriviamo!!! (omissis; sebbene furono più le parole che i fatti). Dopo la goliardata con le lucciole, che ancora oggi grida vergogna, le luci del porto sopraggiunsero, ma scarsa era l’ispirazione di quel filar di palme solitarie ai bordi del molo, mentre ben altra pensammo sarebbe stata l’emozione nel visitare uno di quei locali, poco raccomandabili, sempre aperti in via del Prione. Ottantotto si chiamava il locale (88 l’insegna al neon luminosa) e fu davvero tanto il rischiare lungo le strade deserte per raggiungerlo, per via di quella ronda della marina o mista, come allora era d’uso e si diceva, che con lunghi manganelli bianchi era armata.
Uno dopo l’altro, i soliti intrepidi apripista “mbaime” e “zupinu” s’infilarono per primi e a seguire il “toro”, poi “maotze” (io) e “raddrizzaeccosc”, mentre da ultimo entrò “camola”, il nostro fedele compagno di scuola, quasi a sincerarsi che quegli sciagurati senza patria fossero tutti entrati. Le facce degli avventori, non vi dico che ceffi, ma ancor più delle avventrici del locale, erano davvero tutto un programma nel vederci. Gli sguardi lanciati dalle avventrici poi, a mò d’invito, sedute su sgabelli altissimi, mostravano ben oltre le gambe ricamate con calze a rete nere e su quest’ultime finiva sempre, manco a dirlo, con l’essere catturata l’attenzione. Bevemmo! Chi ricorda più, quanto e cosa? E se non fosse stato per un miracolo di residua sapienza, solo “camola” si astenne un poco, mosso a compassione per un rientro all’istituto che soltanto lui ci avrebbe potuto assicurare.
Usciti dal locale, con quella leggerezza che l’età unita all’alcol avevano trasformato vieppiù in incoscienza, girovagammo un bel pò come randagi latranti per le strade, tra risate, scherzi e sghignazzi senza senso, ma che sembravano la conquista di chissà quale libertà. Il rientro in istituto avvenne, credo, intorno alle 3:00 del mattino e, tanto per non smentire la voglia di rischiare trasgredendo ancora, decidemmo di farlo da dietro la palazzina Comando.
Uno a uno scavalcammo la cancellata bianca, mettendo qua e là i piedi resi incerti dal buio e dall’alcol che ormai produceva i suoi devastanti effetti. Quando fu la volta del “to-
ro” a scavalcare, questi rimase appeso con le braccia all’inferriata e pur mancando pochi centimetri, non c’era verso di fargli toccare i piedi a terra. “Raddrizzaeccosc”, suo compagno in branda del letto a castello nel box della camerata, era l’unico per l’antica amicizia tra i due, a cui il “toro” dava ascolto … ma niente, anche per lui ogni tentativo fu vano, pur rassicurandolo di quanto poco mancasse a terra e tirandolo nel frattempo giù per il cappotto. Il “toro” aveva anche preso a gridare aiuto, urlando in sardo il nome del Comandante che all’epoca era pari pari uguale al capoluogo emiliano. Con tutto quel frastuono già le luci della palazzina Comando si andavano accendendo e finalmente il “toro” cadde a terra e tra risate senza fine, corremmo a raggiungere gli alloggi.
Sarebbe stato il caso di dormire … macchè! La sbronza non era ancora del tutto digerita e furono gavettoni per tutti fuorché per “lotar”, praticante di lotta greco-romana incacchiato nero di tutto quel casino. Era già tempo di prepararci per andare a scuola, noi esterni per primi dovevamo al mattino essere pronti, e mai come quel mattino fummo pronti, si fa per dire, quando alla sveglia il Capitano d’ispezione, ribattezzato “prefisso” in rima con il cognome, esclamò tra materassi ancora gocciolanti … “Questa la pagate!”.