È Paolo GIARETTA che racconta …
Fui assegnato ad una giovane istitutrice di nome Betti che mi avrebbe accompagnato, giorno e notte, per tutto l’anno scolastico. Bella donna, ma con un paio di caratteristiche negative che la rendevano poco prevedibile e pericolosa: affatto materna, era capricciosa e molto irritabile per un nonnulla e aveva reazioni istintive, quasi isteriche (alcuni di noi ne avrebbero pagato le conseguenze …).
Le camerate avevano una loro pratica eleganza collegiale e contenevano una ventina di letti oltre all’alloggio della “signorina” che era opportunamente protetto da una tenda bianca.
Quella notte Morfeo vinse le nostre resistenze, nonostante le luci bluastre notturne; per certo alcuni si addormentarono su un cuscino impregnato di lacrime.
I miei vicini di letto, se ricordo bene, erano due bambini pugliesi, Ezio A. e Nicola C., il primo un ragazzino sveglio e veloce, il secondo un po’ impacciato e goffo e, avrei scoperto, una vittima predestinata del gruppo. Più avanti mi avrebbe raggiunto Giancarlo in preda ad un’insopprimibile sofferenza e mai rassegnato alla terribile novità.
Tutto mi appariva imponente, i lunghi corridoi, le grandi scale, le enormi vetrate, l’ampia mensa; in me scattò un meccanismo automatico di difesa mentale: dovevo sbrigarmi a farmele diventare familiari, mettere il cuore in pace e adattarmi al nuovo ambiente, chissà quando avremmo rivisto i nostri cari …
I successivi contatti con la nuova realtà mi videro alle prese con un problema di difficile soluzione: il parlare correttamente, farmi capire. Ovvero mi spiegavo come potevo in uno stretto dialetto vicentino, non escludo che in qualche occasione mi inceppassi, considerata la velocità con la quale mi esprimevo.
Insomma per me era un linguaggio scontato, ovvio a casa tra i miei, lì invece era come se fosse ebraico antico, al punto che le istitutrici e le suore stentavano seriamente a comprendermi. La soluzione venne individuata con un traduttore in erba, un piccolo padovano, mi pare si chiamasse Lucio C., che pazientemente interpretava i miei discorsi e li riportava in lingua italiana «Suor Gemma, mi pare che Giaretta intenda dire che …» poi mi riferiva in veneto «… varda che i dise che te dovarisi fare …».
… continua con … “Compagni di classe”