È Roberto MAGGI che racconta …
Era la fine di settembre del 1960 o forse il primo di ottobre. Forse era mattina o forse pomeriggio. Forse c’era il sole o forse era nuvolo. Non lo so e non è importante saperlo perché quanto mi accadeva, all’età di sei anni e tre mesi, mi sarebbe rimasto nella mente, indelebile ricordo del mio primo giorno in collegio. In uno di quei giorni partivo da Roma, accompagnato da mia mamma, per raggiungere il collegio ‘Francesco Baracca”, in Loreto; uno dei due istituti di accoglienza degli orfani del personale dell’Aeronautica Militare.
Ero un orfano! Ma non ricordo sofferenza per questo. Sarà che quando Papà volò in cielo , nel 1956, all’età di ventinove anni, io ne avevo appena due e mezzo, mamma, giovanissima, ventitre e mia sorella sarebbe nata cinque mesi dopo la morte di papà, la nonna materna completava la famiglia.
Suppliva all’assenza di Papà il fratello di mia madre, amico di Papà, anch’egli Sottufficiale dell’Aeronautica. Sposato con un figlio, dopo il triste evento, ci ospitò nella sua casa per un paio di anni sino a che trovò un portierato per mia madre. Un lavoro per mamma e un piccolo appartamento in un sottoscala, nel quale ci trasferimmo. La pensione di reversibilità arrivò qualche anno più tardi ma era misera cosa. Mio Papà era un semplice Aviere e dopo pochi anni di servizio si ammalò e fu congedato per inabilità permanente al servizio militare. Gli strascichi di quella malattia sei anni dopo lo portarono alla morte.
Ricordo un giorno, sicuramente prima di partire per il collegio (penso adesso), in cui mamma, convocata dalla presidenza dell’ONFA, allora in via Calamatta in Roma, mi portò con lei.
Fummo accolti con gentilezza, e ricordo volti col sorriso e tante carezze e coccole ricevute da alcune signore. Il Presidente di allora, Generale Corradino Vecchi (ex allievo ONFA) ci ricevette con cordialità. ci venne in contro, e, presa fra le sue mani la mano che mamma gli tendeva, le rivolse parole che non capii, poi carezzò la mia testa, infine ci sedemmo. Parlò con mamma per un tempo che a me sembrò lunghissimo, ogni tanto egli mi lanciava un’occhiata ed un sorriso. Mi sembrava un bravo signore. Forse i capelli bianchi mi ricordavano il Natale. Col senno di poi, sicuramente, egli spiegava a mamma la procedura per essere accolto in collegio. Non ricordo, però, assolutamente nulla del colloquio. Ricordo invece bene la mamma, seduta in pizzo alla sedia, le mani raccolte poggiate sulle gambe, serrate le ginocchia, il volto attento, le sopracciglia aggrottate, i capelli raccolti a banana, come usava allora. Ogni tanto la sua mano mi carezzava il capo o si poggiava sulla mia piccolo schiena, con la mano larga, mi faceva un lieve massaggio poi tornava a far compagnia all’altra sua mano. Mamma era bella ed aveva il volto impreziosito da un naturale accenno di sorriso.
Insomma, di quella mattina di fine settembre o inizio ottobre del 1960 ricordo solo di un viaggio lungo e noioso, montagne e gallerie si ripetevano odiosamente e mamma non aveva il viso sereno di sempre. Mi teneva stretto, vicino a lei come faceva sull’autobus, a Roma, con mia sorellina seduta sulle sue gambe, tutti e tre seduti su di un unico posto. Ma in quel viaggio sembrava come se non mi volesse perdere. Ricordo che arrivati a Loreto, andammo a mangiare al Girarrosto, dove mangiai con grande appetito. Ristorante e albergo che ha accolto tante mamme, in visita ai loro figlioli in istituto, negli anni successivi, ogni seconda domenica del mese, né prima né dopo, come rigorosamente imponevano le suore che gestivano il “Baracca”.
Quel viaggio, di cui mi sono rimasti brandelli di memoria confusa, terminò davanti al cancello d’ingresso dell’istituto, dove arrivammo nel tardo pomeriggio. Non ricordo se mamma, zio o nonna mi avessero detto che sarei andato in collegio. Fino al cancello, perciò, quel viaggio fu per me una gita; la più lunga che avessi mai fatto, per di più, solo con mamma! Al termine (credevo) saremmo tornati a casa dalla nonna e dalla sorellina, che avrei fatto morire di invidia girandole intorno e gridandole: “Io sono andato in gita con mamma e te no ….”. Ma non era così. La mia gita terminava lì, davanti a quel grande cancello in ferro attraverso il quale si intravvedeva il principio di un viale alberato.
Il cancello fu aperto, io e mamma varcammo la soglia e ci incamminammo per un viale alberato, tortuoso e in salita. Ricordo che il tragitto sembrava non finire mai, per di più gli alberi di alto fusto e con grandi chiome ponevano in ombra il viale sicché il sole pomeridiano, ormai quasi spento e prossimo a calare, rendeva il percorso ancor più buio e lungo. ricordo, questo si lo ricordo bene, la mamma che con una mano stringeva la mia e con l’altra portava la mia piccola valigia.
Il viale terminò e di fronte a noi apparve una grande casa, di cui non si vedeva la fine, più grande di quella in cui abitavamo a Roma, bianca, con tante finestre, un ingresso con porte alte a cui si accedeva salendo una breve ma ampia scala al cui termine faceva importante mostra il busto del Maggiore Francesco Baracca, eroe, caduto in volo, durante un combattimento aereo nella prima guerra mondiale. L’istituto fu a Lui intitolato, da Italo Balbo, nell’anno in cui fu inaugurato, il 1930. L’imponente stabile intimoriva non poco un bambino così piccolo, com’ero io. Un grande piazzale di fronte ad esso e un lungo palo con in cima una bandiera di tre colori verde bianca e rossa, concludevano la mia panoramica.
Distratti da tanto, io e mamma non avevamo notato alcune signorine ed una signora con indosso uno stano vestito. Era una suora, ma non mi spaventai, come accadeva ai bambini vedendole per la prima volta, perché a Roma di suore e preti, almeno all’epoca, ce ne erano a iosa.
Una delle signorine si portò verso di noi, che eravamo rimasti la dove eravamo arrivati. Mamma aveva più o meno l’età s=di questa signorina che ci veniva incontro, ventisei anni. Da due anni faceva la portiera di uno stabile, la sua istruzione si era conclusa alla quinta elementare; unica femmina tra sei maschi e per giunta la più piccola. Do questo profilo di mamma perché ella credo vivesse in modo subordinato agli eventi che mi portarono in collegio. Fu mio zio, il Maresciallo, più grande di lei di ben diciassette anni, che le consigliò o si impose (come credo) ritenendo fosse per il mio bene; e non ebbe torto. Ma lo scrivo ora col senno di poi.
La signorina, ora, era di fronte a noi. Non ho un ricordo chiaro ma solo che ella si presentò alla mamma che, tenendo sempre la mia mano, la lasciò in quella, tesa, della signorina la quale, con delicatezza, mi trasse a sé sicché mi ritrovai, in un attimo, anziché con mamma di fronte a lei, mano nella mano di un’estranea. La mia piccola valigia, anch’essa, passò da mamma alla signorina. Mamma si chinò su di me, mi baciò sulle guance, arretrò di un passo, si girò e lentamente ritornò verso il viale da cui eravamo venuti. La signorina, sempre tenendomi per mano e con la valigia nell’altra, fece per girarsi. Io mi opposi e mamma, in quell’attimo, si girò e incrociò di nuovo il mio sguardo. Forse avrebbe preferito vedermi andare via. Allora mi risalutò con la mano e mi disse, alzando la voce perché era ormai distante, e disse: ” Stai tranquillo, presto ti vengo a trovare”. Alzò il braccio e mi salutò e anch’io feci altrettanto facendo si col capo, più volte. Mamma capì che avevo sentito. Si girò e sparì ingoiata dal viale alberato.La signorina poggiò la valigia, si piegò sulle ginocchia, si pose di fronte a me, mi prese la testa tra le mani, mi diede un bacio sulla fronte quindi si alzò e, prese la valigia e con l’altra la mia mano riprendemmo a camminare verso l’ingresso di quel grande palazzo. Non ricordo di aver pianto. Al “Baracca” restai per tre anni, poi fui assegnato (per usare un termine militare) all’altro collegio solo per maschi: il “Maddalena” di Cadimare, La Spezia, dove rimasi dal settembre 1963 al giugno 1979. Ma questa è un’altra storia.