È Aldo CALABRESI che racconta …
Era l’otto settembre del 1951, la mia mamma tornava da Firenze, dove era andata ad accompagnare mio fratello Rodolfo all’istituto “U. Maddalena”.
Erano trascorsi già 4 anni da quando mio fratello stava in collegio.
Quando la mamma tornava da Firenze mi portava sempre una sorpresa. Aimè quel giorno non fu così, la sorpresa fu tutt’altra! Una sorpresa che avrebbe segnato per sempre la mia vita. Quel giorno, come tanti altri, ero a bordo di un peschereccio di amici di famiglia al largo di Calderà. Era questa la località, conosciuta come la spiaggia di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Qui vivevo da quando era morto mio padre. La mamma, che lavorava a Messina come caposala nell’Ospedale Principe di Piemonte, ci portò dai nonni materni che vivevano appunto a Calderà. Senza il loro aiuto non avrebbe potuto continuare a svolgere il suo lavoro.
Mi stavo divertendo a pescare quando alla radio di bordo venne chiamato Antonio, il capitano del peschereccio. Gli chiesero di riportarmi subito a terra con urgenza. Calò in mare il barchino e mi fece accompagnare a terra. Quella chiamata mi aveva preoccupato, non sapendo cosa fosse accaduto. Mi aspettava mio zio Vincenzo che mi dette la triste e inaspettata notizia: dovevo anch’io andare in collegio.
La mamma aveva a lungo resistito per tenermi con lei nonostante le forti pressioni che arrivavano dalla Direzione dell’ONFA. Questa volta, di fronte alle minacce del Presidente Gen. Mongia che avrebbe sospeso gli aiuti alla famiglia, fummo costretti ad accettare.
Quella sera stessa, fatti i bagagli, la mamma non aveva ancora disfatti i suoi, prendemmo la Freccia del sud e dopo 12 ore di viaggio arrivammo a Firenze.
Nonostante la mia riluttanza e la mia tristezza, mi esaltava il pensiero di andare a Firenze, città che mio fratello Rodolfo adorava considerandola la più bella del mondo. Quando il traghetto partì da Messina, io, dal ponte, la guardavo. Era bellissima tutta illuminata! Quando passammo accanto alla statua della Madonnina iniziai a piangere. Il viaggio fu lungo e stancante. La calca dei passeggeri ammassati lungo il corridoio e il cattivo odore mi fecero vomitare, ebbi anche un po’ di febbre. La mamma cercava di coccolarmi e dopo qualche ora mi addormentai.
In seguito il medico del collegio mi disse che il mio male sul treno era stato causato da un fatto emotivo. Psicologicamente avevo avuto il rifiuto del viaggio perché rifiutavo il collegio.
Prima di arrivare alla Stazione di Santa Maria Novella, mamma mi svegliò con dolcezza: <<Alduzzu … amuri … svigliati a mamma … arrivammu>>. Chiamò dal finestrino un porta bagagli e ci avviammo all’uscita della Stazione.
Non nascosi la mia emozione e lo stupore quando vidi Firenze: << … Minchia … quantu è bedda!!”>> mi scappò di dire ad alta voce. <<Zittu figghiu mio>> mi implorò mamma … << … chi brutta figura mi fai fari>>.
Ci avvicinammo al marciapiede per prendere un taxi, non ne trovammo uno … erano tutti in giro. Ci toccò prendere il filobus da piazza Adua, che ci lasciò all’inizio della salita di Via Massaia. Ci incamminammo lungo la salita con i bagagli.
Era faticosa, ma un’anima pia ci vide in difficoltà e ci volle aiutare. Era una bella e giovane ragazza che lavorava alla NET, la Nuova Enigmistica Tascabile. Si accollò i bagagli e ci accompagnò fino al cancello di Via S. Marta. In seguito la rividi più volte e spesso veniva a cercarmi sotto il muretto di cinta del collegio. Mi portava giornali, caramelle, biscotti ed altre cose buone; diventò per me una sorella maggiore.
Dopo aver percorso il vialetto ghiaioso, arrivammo all’ingresso, dove ci aspettavano un certo signor Pandolfi e mio fratello Rodolfo. La mamma rimase con noi un’oretta e poi, con le lacrime agli occhi, ci salutò. Un pullman dell’AM che si recava in centro le diede un passaggio fino alla stazione dove riprese il treno per ritornare in Sicilia. Mio fratello maggiore, il compianto Rodolfo, mi portò piangente nella sua aula, ma non riuscì a consolarmi. La sera, l’istitutrice notturna, la signora Fedora, bravissima donna di grande sensibilità, stette seduta vicina alla mia branda per diverse ore della notte, cercando di consolarmi, ma senza grossi risultati.
Piangevo e mi disperavo. Fu così il primo giorno, … quello successivo, … e ancora, … per i primi sei mesi. A peggiorare il tutto contribuì anche la difficoltà nel parlare l’Italiano. Ero rimasto ingabbiato nel mio stretto dialetto siciliano che poco mi permetteva nel comunicare con gli altri. Parlavo solo con mio fratello con il quale spesso mi appartavo. Il tempo è sempre la migliore cura ai nostri problemi, e anche per me, il sole dell’affetto e dell’amicizia dei compagni tornò a splendere.