È Paolo GIARETTA che racconta …
I ricordi (spezzattati) mi collocano in un treno affollato all’inverosimile: la nota “tradotta dei migranti” Milano – Lecce in un periodo di ponti – vacanze.
Tantissima povera gente del Sud, famiglie con prole numerosa, si accalcava schiacciata in piedi in ogni minimo spazio del convoglio. Per tutti una vera tortura, li attendevano lunghissime ore di un viaggio estenuante. Chi gremiva il gabinetto si riteneva altamente fortunato; dappertutto, come una nebbia padana che copriva ogni cosa, voci, pianti di neonati, parlate in dialetti sconosciuti, effluvi di cibo all’aglio, di formaggio pecorino, di fumo di sigarette, di umanità non sempre e non tutti
allettanti.
Con me, ovviamente, mio fratello minore Giancarlo (sette anni); quel bambino rotondetto aveva lasciato a casa la sua consueta immagine di un essere felice e il suo sorriso precario (era senza alcuni denti da latte) ed era aggrappato con forza alla mano della mamma. Nei suoi occhi si leggeva un’espressione perplessa, fortemente preoccupata, smarrita, forse stava realizzando che il nostro non era un viaggio di piacere, probabilmente sentiva, come me, che eravamo alle soglie di avvenimenti che ci avrebbero procurato sofferenza.
Ci accompagnava anche lo zio Mario, il fratello maggiore di nostra madre, una figura solida e generosa a cui facevamo pieno riferimento; era lui che a spallate e spintoni aveva recuperato il metro quadro di spazio in cui noi quattro ci eravamo rannicchiati.
Anche se piccolo (otto anni), le mie esperienze di abbandoni precedenti con prolungati soggiorni in varie località montane per cure ai polmoni mi fecero pensare con timore che non fosse l’Eden dei bimbi quello che ci attendeva.
Il senso incontenibile di nausea non era causato solo dal treno e dai suoi movimenti. No, (lo scoprirò più tardi) era tutto il mio essere che rifiutava questa nuova situazione intollerabile: non esisteva modo peggiore per recarsi al patibolo …
… continua con … “L’addio”