È Mario BRUNO che racconta …
Il primo maggio del 1946 la guerra era terminata da un anno. Presso la Caserma Cavour di Roma, erano stati convocati trentasei giovani appartenenti al vecchio “Maddalena”, per essere sottoposti alla visita medica necessaria per essere arruolati come volontari nella Regia Aeronautica.
C’eravamo lasciati a Gorizia (in seguito ai fatti dell’otto settembre 1943) adolescenti e ci ritrovammo giovanotti. Ci sentivamo come fratelli, ci raccontammo le nostre esperienze personali e famigliari, felici di aver ritrovato e ricostruito le vecchie amicizie e il nostro ambiente.
Adempiute le formalità di rito, e indossata l’uniforme, prendemmo possesso della baracca ove era sistemata la camerata. Diciotto brande biposto, trentasei materassi , trentasei paia di lenzuola e relativi cuscini costituivano l’arredo, ma per noi, abituati a ben altro, era una reggia. La baracca faceva parte di un complesso di costruzioni leggere edificate su un’area, nei pressi di Piazza Bologna, ai limiti della Roma di allora.
Un lato dava su una piccola valle delimitata dai binari del treno, il resto era oppresso dai palazzi del quartiere. A qualche centinaio di metri c’era l’edificio scolastico che ospitava un reparto di polacchi.
Al nostro arrivo, il complesso era formato da una decina di baracche che gravitavano su un piazzale. Alcune erano adibite in parte ad alloggio Sottufficiali e in parte ad alloggi di truppa. Una baracca era riservata per gli uffici ed una per la mensa e la cucina. Altre baracche erano riservate a magazzino di materiale di casermaggio, saccheggiato e recuperato dopo l’otto settembre.
Il nostro gruppo fu impiegato nella guardia di detto materiale. La malavita locale, che stanziava in un night club, ci avvicinava più volte per corromperci offrendo soldi e buona compagnia. Abbiamo resistito a tutti i tentativi.
L’altra caratteristica del posto era l’alloggio del Comandante (un Capitano reduce dalla prigionia) che, in omaggio al continente ove era stato prigioniero, aveva costruito un “tucul” in mezzo al piazzale.
Nella nostra camerata non esistevano armadi e tavolini per cui ci organizzammo recuperando vecchie cassette di legno per riporvi quanto possibile, la divisa veniva riposta su un attaccapanni. In fondo alla camerata fu organizzato un tavolo per le varie necessità. I pantaloni venivano stirati ponendoli distesi su una coperta sotto il pagliericcio.
I bagni, quando arrivammo, erano in un edificio esterno. Quattro tazze alla turca in condizioni da vomito, senza acqua corrente, quattro lavandini, un paio di docce. In pochi giorni, con un poderoso impiego dei nostri muscoli, e l’intervento di un idraulico, furono restituiti alla dignità di servizi igienici.
La mensa era un modello di organizzazione. Ci fu concesso di consumare i pasti fuori dalla baracca. a turno con la marmitta, a mezzogiorno andavamo a prelevare il rancio che ci veniva distribuito da uno strano personaggio vestito in modo quasi adamitico che propinava la brodaglia con il mestolo ed a volte con le mani … Mangiavamo di tutto, anche il rancio degli assenti. alla fine del pranzo il problema della lavatura delle stoviglie veniva risolto come segue: i piatti venivano proiettati sul tetto della baracca. Gli addetti al lavaggio stoviglie (il nostro genio organizzativo contemplava dei turni) salivano sul tetto, raccoglievano il materiale, si recavano al lavatoio esterno alla cucina dove lavavano le stoviglie con la sabbia posta presso il lavatoio, e poi le risciacquavano. I piatti erano in allumino come le marmitte e allora esisteva solo la sabbia per togliere l’unto.
Facevamo solo turni di guardia ed eravamo liberi da ogni incombenza della caserma. La nostra “giornata libera” consisteva nel bighellonare per Roma e frequentare i locali che all’epoca attraevano il sesso forte … !!! Qualcuno aveva fatto amicizia con qualche ragazza promettendole amore eterno …
In tram non pagavamo il biglietto e alla richiesta del bigliettaio rispondevamo che avremmo pagato quando avrebbero pagato anche i soldati stranieri.
Roma era piena di prostitute attratte dalla presenza degli americani e degli inglesi, che avevano facile gioco. Certamente la vita era dura e non sempre la giornata era positiva. All’ora del rancio, specie la sera, presso la nostra caserma e quella dei polacchi, si presentavano decine di donne che richiedevano un piatto di minestra pronte a concedersi. Erano scene strazianti, perché era la fame che obbligava quelle donne, e non il desiderio di gioielli o denaro.
Due episodi segnarono la nostra permanenza alla “Piccagli”: l’epidemia di febbre da pappataci e il servizio d’ordine pubblico in occasione del referendum Monarchia/Repubblica.
Il primo episodio, l’epidemia, si risolse in una quindicina di giorni. Fu causata dal caldo estivo che favorì lo sviluppo dei pappataci sui cumuli di macerie dei palazzi bombardati.
… continua …