È Mario BRUNO che racconta …
… continua …
Il secondo può essere inserito in un contesto storico. Il trentuno maggio 1946 ci scaricarono nei pressi di Montecitorio di fronte ai portoni dei due palazzi che delimitavano la strada di accesso alla piazza. Scaricammo i materassi, le armi e i viveri a secco. I materassi furono sistemati sui pianerottoli con i viveri (una galletta, una fetta di provolone, una scatoletta di carne e di frutta secca). Fummo assegnati agli ordini di un Maresciallo, con l’ordine di fronteggiare, insieme ad altri militari, le manifestazioni pro o contro la Monarchia o la Repubblica. Armati con il famoso moschetto “91”, e un paio di caricatori, assistevamo con inquietudine all’alternarsi dei vari cortei, pacifici ed ordinati dei pro Monarchia, ed esagitati e a volte violenti quelli pro Repubblica.
Tra un corteo e l’altro, rimanevano alcune ore libere durante le quali avevamo escogitato il mezzo per entrare a sbafo nei teatri di varietà e nelle numerose case chiuse situate al centro della città.
Effettuavamo il servizio di ronda a tre a tre per il controllo dei militari in zona. Tutte le porte si spalancavano e qualche volta ci scappava anche da bere.
I nostri diciotto anni e la nostra spavalderia ci portavano a fare degli scherzi “da prete“. Uno dei nostri, che non aveva ancora conosciuto “l’amore”, fu inviato, da un altro, ad accompagnarlo in visita da una zia e alcune cugine. Entusiasta, il giovane innocente, abboccò e si ritrovò in una casa di tolleranza. Al passaggio di alcune signorine, chiese lumi per l’abbigliamento esclamando: «Ma le tue cugine sono nude!!» «Certo!», fu la risposta, «Qui, le donne di casa hanno sempre caldo!!». Fatto oggetto di attenzioni, fu trascinato in una camera dalla quale fu poi difficile farlo uscire.
Una sciocchezza che dimostrava la nostra attitudine a essere sereni anche in circostanze che potevano divenire tragiche.
Sul finire dell’estate, con Moneta, fummo incaricati della scorta di un camion con rimorchio carico di materiale di casermaggio per la Scuola di Guerra di Firenze. Si stava per riaprire il vecchio “Maddalena”. fu un viaggio pericoloso. La strada per Firenze era chiusa e dovemmo procedere per Livorno-Pisa-Tombolo-Firenze. La notte ci sorprese a Montalto di Castro, ove avremmo sostato per un paio di giorni, sotto una pioggia torrenziale, con un autista malfido che aveva patteggiato la vendita del nostro carico alla mala locale. Ci fu estesa la proposta che rifiutammo con energia, ma ciò ci costrinse armi in pugno a una notte in bianco con la paura di essere assaliti, sotto una vera e propria alluvione. Dopo due giorni ripartimmo lentamente, ma dovevamo mangiare, fummo costretti a vendere cinque litri di benzina. Finalmente superammo Pisa e costeggiammo Tombolo. Ad una curva, una ciurma di ragazzi cercò di abbordare il nostro camion e fummo costretti a sparare dei colpi in aria per salvare la nostra pelle, il materiale e il camion.
A quei tempi, nel 1946, Tombolo era una grande pineta a ridosso dei magazzini degli Americani. All’interno, intere bande di disertori di tutti gli eserciti, avevano organizzato delle baracche come base logistica per depredare i magazzini che custodivano di tutto. Spesso vi erano conflitti a fuoco. Intorno e dentro il Tombolo vi era un rifiorire di malaffare che andava dalla prostituzione, al commercio di sigarette, benzina, vestiario, autoveicoli, e quant’altro si possa immaginare. Quel covo di delinquenza fu rastrellato dopo qualche anno con l’intervento degli Americani e dei nostri militari.
Dopo un paio di giorni rientrammo alla Piccagli, ma i nostri erano già partiti per Firenze. Il nostro bagaglio, rimasto in camerata, era scomparso e con esso le foto di casa e un abito.
Non si scandalizzi il lettore, ma l’Italia, in quei tempi, era tutta così. Un puttanaio a cielo aperto, reduci che stentavano ad inserirsi in una vita ordinata, militari di ogni colore e provenienza che agli occhi di tanta gente apparivano come ricchi turisti, banditi con tecniche militari assalivano ogni giorno banche, uffici postali, abitazioni.
Nonostante tutto, siamo passati in mezzo all’inferno conservandoci integri. Anche in quel periodo l’Aeronautica fece quello che poteva. Ognuno di noi ha affrontato ogni difficoltà, e ha operato le proprie scelte di campo. Il prezzo di tutto ciò furono le difficoltà incontrate nel ricollocarci.
Abituati a risolvere i problemi con il personale spirito di iniziativa, era pesante rinunciare all’individualità, induriti nei nostri principi eravamo disincantati. Il superiore in grado doveva meritarsi i galloni sul campo per ottenere obbedienza e rispetto.
Tutto era iniziato quel maledetto otto settembre!!
Quel giorno caddero gli idoli di quella gerarchia che si poneva come punto di riferimento. Ognuno si costruì idealmente e confusamente un proprio mondo. Fu un mondo che conservò integri gli ideali di base di una società, ma diffidente verso il potere tutto, perché vedere crollare lo Stato è un trauma.
La gerarchia, la burocrazia, il diritto/dovere di emanare le leggi, di amministrare un popolo, di dirigere un potere dello Stato, non sono funzioni da affidare solo a un concorso o ad una laurea. Questi sono necessari come base, ma debbono far parte di un sentire comune dove il rispetto per se stessi deve identificarsi nel rispetto degli altri, adempiendo il proprio dovere con generosità e senza risparmiarsi.
Chi amministra deve dare tutto se stesso, senza badare a onori e prebende, con senso pragmatico, per realizzare il bene della Società senza presupposti ideologici.