È Mauro SCIASCIA che racconta …
Alle dieci del mattino arrivammo a Monguelfo. Una meraviglia.
Allora, il paese si chiamava “Bagni di Monguelfo”. Tale denominazione derivava dall’importante “Albergo Bagni”(traduzione dall’originario impronunciabile nome tedesco), che era stato famoso in tutta la valle e anche presso l’aristocrazia austriaca che lo frequentava. Acquistato dall’ONFA, nel 1939 era diventato il nostro soggiorno montano.
“Bagni” perché c’era una sorgente d’acqua (pare fosse curativa dell’apparato digerente) che,
ancora nei nostri anni, alimentava una fontana con vasca metallica, posta sul retro dell’edificio. Ancora prima di essere hotel, la struttura era appartenuta all’imperatore d’Austria come residenza di caccia.
La colonia si trovava (e si trova ancora oggi, nuovamente trasformata in albergo e residence) circa un centinaio di metri più in alto rispetto al paese e la si raggiungeva, in ripida salita, inerpicandosi per una strada in terra battuta ricoperta di pietrisco. Il nostro pullman per riuscire a superare la salita doveva necessariamente essere zavorrato sugli ultimi sedili in corrispondenza delle ruote posteriori, affinché queste non slittassero, ma esercitassero la giusta presa per poter procedere nella lenta arrampicata.
Giunti quindi a destinazione e scesi dal treno, le nostre valigie furono caricate sui sedili posteriori del pullman mentre noi tutti ci avviammo a piedi su per la salita. Realizzai allora che la montagna non era solo bella, ma anche faticosa!
In quel mese di spensierata vacanza, noi bambini avvertimmo tuttavia qualche piccolo segnale di preoccupazione da parte dei superiori: mezze frasi tra di loro … e le ripetute raccomandazioni, sin dall’inizio, di comportarci correttamente durante le nostre gite ed escursioni, per evitare possibili tensioni o equivoci con la popolazione locale che non aveva nei confronti di noi Italiani un atteggiamento proprio fraterno. Fino al 1918 quelle terre erano state austriache e dalle persone del luogo eravamo visti, a maggior ragione per la divisa che indossavamo, con un po’ di fastidio e, a volte, con una punta di ostilità. Non eravamo i turisti di oggi, ospiti benvenuti che alimentano il benessere del paese.
All’epoca, i valligiani, erano, in larga maggioranza, contadini con un modesto livello di scolarizzazione e scarsa conoscenza della nostra lingua, che pur tollerandoci, ci consideravano comunque estranei, e se anche ci capivano, fingevano di non comprendere. C’erano stati alcuni attentati terroristici, in particolare a centrali elettriche e linee ferroviarie, da parte dei cosiddetti irredentisti sudtirolesi. I loro possibili obiettivi venivano quindi costantemente presidiati da reparti dell’Esercito, Alpini in particolare presenti in elevato numero a Monguelfo in una caserma lungo la strada per Villabassa; ricordo che le loro pattuglie, a volte, durante il servizio di perlustrazione neo boschi, passavano a farci visita.
Ero il più piccolo della colonia e lo capii, oltre che per gli scarponi ricevuti in dotazione, di due numeri eccedenti il giusto (per cui dovevo calzare due paia di calzettoni ben spessi per poterci camminare senza sguazzarvi dentro), anche per le cure e le attenzioni che le ragazze più grandi, miei veri angeli custodi – non so se su invito della Direzione o per loro innato spirito materno – avevano nei miei riguardi.
Mi coccolavano davvero! Ogni volta che incontravo una difficoltà … qualcuna di loro correva in mio aiuto; a pensarci adesso … una vera pacchia!
Fu una bella vacanza. Gite in incantevoli località raggiunte con il pullman, seguito all’allora di pranzo dalla campagnola carica di viveri per soddisfare il nostro appetito famelico (l’inappetenza l’avevo ormai dimenticata). Escursioni nei boschi con abbondante raccolta di fragole, lamponi, mirtilli, mentre imparavamo a distinguere i funghi mangerecci, specie galletti e porcini, da quelli velenosi.
Molto spesso le nostre passeggiate avevano come destinazione la “Gaila”, una baita non lontana, dove due bambine bionde con le trecce, nostre coetanee, ci servivano con gentilezza la loro buonissima panna fresca cosparsa di zucchero. A volte, nel bosco, organizzavamo una piccola guerra: prima raccoglievamo le munizioni (le pigne cadute in terra), e poi, formando due schieramenti opposti, ce le scagliavamo contro riparandoci dietro gli alberi.
Imparai, a spese delle mie gambe, a riconoscere ed evitare le ortiche (avevamo pantaloncini corti), divenni esperto nel rifarmi il letto, conobbi l’arte del fare il sacco al vicino di branda, mi scoprii discreto velocista il giorno in cui nel bosco, allontanatomi di poco dai miei compagni si squadra, feci la conoscenza di una tranquilla e solitaria vipera distesa al suolo tra i mirtilli.
Trascorse così il mese di agosto; la prova proposta dal Generale Mongia aveva avuto successo e la mia soddisfazione per l’esperienza vissuta contribuì, assieme alla persuasione esercitata dalla presidenza dell’ONFA, a convincere mamma di quanto fosse opportuno che nel successivo mese di ottobre andassi a Loreto per frequentarvi la seconda elementare.
Era stato questo l’antefatto che, a distanza di qualche settimana, avrebbe determinato il mio ingresso nell’istituto “Francesco Baracca”.