È Fernando VISIONE che racconta …
(tratto da “C’era una volta … in collegio”)
C’era una volta un treno che partiva da Roma-Termini per andare al nord. Quell’anno ero stato promosso in quarta elementare ma per tornare a scuola sarei dovuto andare in collegio; così, una mattina di settembre, salii su quel treno, accompagnato da mia madre. Lei indossava un abito nero, si vestiva così da quasi un anno e, allo stesso modo, avrebbe continuato a farlo ancora per molto tempo. Quella stazione era enorme, i binari non proseguivano ma terminavano tutti alla fine dei marciapiedi. Era molto più grande della stazione Tiburtina da dove, altre volte, avevo preso il treno per andare al paese dai nonni. Anche il treno era diverso, non aveva le panche di legno ma dei divani morbidi dentro tanti scompartimenti separati e chiusi da porte scorrevoli. Il viaggio fu bellissimo, rimasi seduto pochissimo trascorrendo quasi tutto il tempo vicino ai finestrini; vidi la città che si allontanava con le case che a poco a poco lasciavano il posto alla campagna e poi, il mare, le mucche, le pecore, i cavalli.
Mia madre mi indicava tutto e così io non facevo altro che spostarmi dallo scompartimento al corridoio per passare da un finestrino all’altro; ogni tanto mi sedevo di fronte a lei e allora incrociavo il suo sguardo dolce, lei mi faceva giocare, io ero contento ma i suoi occhi erano tristi.
Il bus che portava da La Spezia a Cadimare non poteva arrivare giù in paese perché la strada in basso era troppo stretta. Per questo le fermate erano tutte sulla strada che costeggiava la parte alta del paese, quella che stava a mezza collina. Quando scendemmo, una bianca nebbia avvolgeva le colline e il mare, e ci faceva intravedere solo la lunga scalinata che dovevamo scendere per arrivare giù in basso, al collegio.
Il cancello era aperto, il personale di guardia alzò la sbarra e ci fece entrare. Fummo accolti con un saluto militare e una stretta di mano e poi accompagnati verso una grande palazzina chiamata “Alloggi”. Mentre camminavamo, tutto quello che si poteva vedere tra la leggera nebbia era bello; grandi alberi, giardini, campi di calcio, aiuole fiorite. Giunti alla palazzina ci venne incontro un anziano Maresciallo. Mi fece piacere rivedere quella divisa perché era uguale a quella del mio babbo. Aveva capelli e baffi bianchi, tagliati e pettinati perfettamente e indossava l’uniforme in modo impeccabile, senza ostentare l’autorevolezza che quella figura comunque riusciva a trasmettere. Andammo insieme al guardaroba dove mamma consegnò la valigia con i miei indumenti: magliette, canottiere, mutandine, calzini e fazzoletti, tutti contrassegnati con un numeretto cucito su ogni capo; il 19A resterà il mio numero per dieci anni.
Dopo che ebbi indossato i pantaloncini, la camicia e il maglioncino grigio del collegio, uscimmo dalla palazzina “Alloggi” scendendo le scale fino alla strada. Lì alcuni operai stavano scalpellando le pietre che dovevano poi essere poste a margine del marciapiede. Osservando come lavoravano, mi distrassi quasi incantato nel vedere come battevano, con arte, sul bordo della pietra per lasciare quei semplici solchi che avrebbero impedito ai passanti di scivolarci sopra. Fu il Maresciallo Lo Castro che mi richiamò ad essere presente, per invitarmi a salutare mia madre che doveva andare via. La guardai in viso e mi resi conto che i suoi occhi tristi erano diventati rossi. Mamma si chinò per baciarmi e così sentii il suo profumo, carico di quel calore che vorresti sempre avere con te; e invece quel profumo stava andando via assieme a quella figura che lentamente si allontanava tra la leggera nebbia. Chi sa quante lacrime stavano accompagnando quei lenti passi che nessuno avrebbe voluto fossero fatti.
Il Maresciallo Lo Castro mi prese per mano e cominciò a condurmi verso un’altra palazzina, la palazzina “Studi”. Mentre camminavo girai la testa per cercare di vedere ancora una volta mia madre; non c’era più. Avevo ancora nelle narici il gusto del suo profumo che però iniziava a mischiarsi con un altro piacevole odore; era quello del mare. Iniziai a respirarlo con forza, quasi con rabbia, per cercare di sostituire quel profumo di mamma che non riuscivo più a percepire. Respirai talmente forte da farmi venire le lacrime; ma chi sa se quella era la vera ragione per cui stavo piangendo.
Con il passare del tempo quell’odore di mare diventò per me un profumo, un buonissimo profumo che, ovunque fossi, avrebbe sempre ricondotto la mia mente alla mia casa, quella casa che allora non sapevo più dove e quale fosse.
Molti anni dopo ero in libera uscita a Portovenere. Il mare era agitato e, dall’alto del castello, mi incantai ad osservare lo spettacolo di una grande mareggiata che riusciva a spingere le onde quasi fin sopra la piccola Chiesa di San Pietro. Uno straordinario odore di mare dominava tutta l’aria circostante e, vedendo quella chiesetta costruita lì sugli scogli, ebbi la certezza che anche al Signore doveva piacere l’odore del mare: per fortuna, ero in buona compagnia.