È Maria Grazia ZAMPELLA che racconta …
Benché avessi solo sei anni quando sono entrata al “Baracca” ricordo come fosse ora il colore dei copri letti del dormitorio elementare, era dello stesso tono dei grembiulini: un azzurro avio scolorito dal tempo con una passamaneria bianca a spirale e una leggera arricciatura. Le coperte grigio/marroni avevano stampigliato le sigle dell’Aeronautica e le divise per le uscite ufficiali erano in tutto e per tutto identiche a quelle degli adulti che prestavano servizio nell’arma. Anche nel tessuto: pesantissimo e spesso in lana cruda che pungeva e arrossava le gambe per effetto dello strofinamento (quanta glicerina in inverno sulle cosce arrossate e screpolate!).
Mi sentivo imbarazzata quando, dopo le raccomandazioni di norma e in fila ordinata, uscivamo per recarci in Basilica in tenuta militare. Attraversavamo il corso e tutti si voltavano a guardarci, sentivo gli sguardi che indugiavano, a volta accompagnati da un sorriso benevolo ma quasi sempre da una curiosità che mi infastidiva. Sentivo le frasi sussurrate: Poverini … orfani così giovani? Ma orfani di cosa? Ma la mamma … non hanno neanche quella? Chissà cosa mangiano …
E anche se non mi sentivo abbandonata, anche se mangiavo bene, anche se in fin dei conti non mi mancava nulla, quelle frasi lasciavano il segno, in un’età così tenera. Solo con il passare del tempo compresi che ero stata fortunata perché, nel mio “abbandono” potevo vivere al di fuori delle meschinità umane, potevo gioire di un sacchetto di liquerizie sempre uguale per tutte, di una gita al lago, o del semplice fatto di vivere insieme a quelle che ancora oggi ritengo mie sorelle.
Uno dei giorni più importanti era quello della “Befana”: mesi e mesi prima scrivevamo la nostra letterina elencando, in ordine decrescente, i nostri desideri. Solo uno sarebbe stato esaudito e passavamo intere giornate a pensare a quale poteva essere più importante, più gradito. Poi l’attesa, interminabile! Si avvicinava il grande giorno, la palestra veniva miracolosamente trasformata in chiesa, palco di canto, sala riunioni. La sera precedente, quasi di nascosto (ma non per noi che avevamo le vedette e il passa parola), arrivava un camion carico di pacchi dono, tutti in carta da pacchi marroncina che veniva scaricato in attesa del giorno dopo. Ed eccolo l’elicottero: atterrava al centro del campo di pallacanestro mentre le auto degli invitati continuavano ad arrivare. Sfilavano Ufficiali in tenuta solenne pieni di cordoncini colorati e medaglie e io guardavo con occhi sbarrati tutto questo andirivieni di personalità che mi suggestionava.
Dall’elicottero con incedere lento e maestoso scendeva il Capo di Stato Maggiore. Noi tutte fremevamo di impazienza ma tanta era ancora l’attesa: prima la messa officiata dal Cardinale, al quale non sembrava vero di poter parlare a tante celebrità e quindi indugiava sempre a lungo, nell’omelia, sulla grande opera benefica della quale tutti potevano ammirare i frutti ecc. ecc. Poi il coro con i canti, il nostro maestro Remo Volpi e gli applausi che accompagnavano la nostra esibizione. Quindi il grande atteso momento: incominciando dai più piccoli ad uno ad uno venivamo chiamati attraverso un microfono a recarci presso quel gigantesco tavolo carico di doni dove signore elegantissime ce li porgevano. Mano a mano che i minuti passavano non si sentiva altro che il rumore della carta stracciata con foga e le urla di gioia di chi trovava il suo sogno del momento racchiuso in una scatola.
Oggi il collegio è stato chiuso, al suo posto sorge una Scuola dell’Aeronautica Militare, molto è stato rinnovato, ma la facciata esterna è rimasta invariata; il parco è sempre lo stesso, gli alberi che ci hanno visti correre sono gli stessi, solo più grandi. Sono sopravvissuti gli affreschi ai muri, come quello che narra la mietitura in sala mensa, e qualche quadro. La mia biblioteca, il mio amato luogo di meditazione, è stata smantellata per dare spazio al mega galattico ufficio di qualche responsabile.
Dove saranno finiti tutti quei libri che furono letti, toccati, custoditi da tante di noi? Ho vagato per tutte le stanze, pochi anni fa, alla ricerca delle conferme ai miei ricordi, così nitidi, e ho scoperto che tutto è incredibilmente più piccolo. Il viale alberato è una semplice stradina asfaltata, non più una lunghissima e larghissima strada come ricordavo. Lo si può percorrere in pochi minuti ma allora a me bambina sembrava incredibilmente lungo. E il seminterrato della villa nella quale studiavo, al quale evitavo solo di pensare, tanto mi incuteva paura, altro non è che un magazzino per vini. Devo confessare comunque, un brivido che mi ha colta all’improvviso quando, ormai donna, ho deciso di scendere quei pochi gradini per vedere cosa si celava dietro a quella porta.
Ammalarsi poi non era un dramma: ricordo caramente Suor Ippolita, nonostante tutte le iniezioni che dovette farmi perché ero una bambina gracile. Senza farne parola con nessuno andavo su sino all’ultimo piano, entravo, la cercavo con gli occhi e invariabilmente la trovavo con l’uncinetto in mano a comporre quadretti multicolori con avanzi di filati: quadretti che sarebbero diventati coperte, prima o poi. Alzava gli occhi da dietro le lenti bifocali e capiva al volo che avevo la febbre. Lei mi faceva un cenno e io le volavo letteralmente sulle ginocchia, per poi farmi docilmente portare a letto e rimboccare le coperte. Avevo una salute molto cagionevole e passavo molto tempo in infermeria; forse a qualcun altro sarebbero mancati i giochi e le amiche, ma avevo tante alternative stimolanti: un considerevole numero di Topolino che, anche letti e riletti, mi trascinavano nel mondo della fantasia e diventavo corsaro o sirena, sceriffo o califfo, a seconda della storia.
Ma il meglio, in assoluto, era la convalescenza da una malattia infettiva quando, guarita quasi del tutto, mi era consentito accedere all’enorme terrazza. Da lassù la vista si perdeva sino all’orizzonte, abbracciando un raggio di 270 gradi. La costa, il mare, i vigneti e i campi coltivati con le loro geometriche forme, di mille svariati colori, arati o in piena fioritura; grano a perdita d’occhio con le macchie rosse dei papaveri. A volte scorgevo anche momenti di vita quotidiana del mondo che era “fuori”; bambini in bicicletta o vecchi a passeggio con il cane, e la mia fantasia era sempre stimolata e viaggiavo, viaggiavo nei miei sogni. Oggi mi capita spesso di chiedermi quanto quel periodo ha influito nella formazione del mio carattere, quanto del mio riuscire a dire “ci penso domani” è il risultato del mio vissuto di allora, so soltanto che sono grata di essere così. Seria e concreta di fronte alle vere scelte di vita e positiva e serena di fronte alle avversità. Sono felice del profondo affetto che mi lega a quei luoghi, alle mie amiche che ancora sento, con le quali mi confido e nel cui sincero abbraccio sempre mi abbandono. Grazie all’ONFA ho potuto avere una famiglia e un’infanzia serena e costruttiva e il mio sincero e immutato affetto ha continuato a crescere con me, sino ad oggi che sono una nonna!