È Renato FERRARI che racconta …
A diciassette anni divenni “Allievo Militare”. Il 20 luglio 1960, interrotte le vacanze scolastiche, partii per Cadimare dove, assieme ad un’altra ventina di allievi, iniziò la mia partecipazione al corso (il 17°) che si sarebbe concluso a fine agosto. Erano previste lezioni ed esercitazioni: le lezioni teoriche, che riguardavano essenzialmente l’ordinamento militare e il regolamento di disciplina, venivano tenute in aula; le esercitazioni pratiche, che consistevano principalmente nella marcia e nell’esecuzione di manovre da parte del plotone di noi Allievi Militari – per quella che era definita “scuola comando” – erano svolte sulla pista di pattinaggio. Già sapevamo marciare più che bene, ma adesso … eravamo anche armati: con un M.A.B. (moschetto automatico Beretta) che ci era stato dato in dotazione senza munizioni – e del quale eravamo responsabili. A parte l’arma, poco di nuovo rispetto alle nostre abitudini e conoscenze di prima, salvo che avevamo messo le stellette sul pizzo del colletto delle camicie, ed eravamo diventati militari. Ora le punizioni potevano fioccare molto più numerose di prima.
Durante le esercitazioni – faceva caldo e si sudava – ci dissetavamo attingendo una bevanda di acqua e anice da una botticella situata lungo le scale che scendono dalla strada verso il campo di calcio, a disposizione del personale della base. Ero stato nominato Capo corso e quindi ero responsabile degli spostamenti del plotone che dovevo far procedere ben inquadrato, a passo di marcia.
I nostri istruttori erano il Sergente Ledda e un Maresciallo di cui non ricordo il nome, mentre il Maresciallo Vivaldi, responsabile della nostra “educazione fisica”, ci portava in mare con la iole, barca da gara con otto posti ai remi più il timoniere (lui), con la quale giravamo per il Golfo dei Poeti con nostro grande entusiasmo.
Ci fecero la vaccinazione contro una serie di malattie infettive, non ricordo quante, ma comunque una “bomba” di vaccinazione che ci venne iniettata con una puntura al petto durante la quale, non potendo noi muoverci, gli infermieri, nostre vecchie conoscenze, si divertivano a sporcarci con la tintura di iodio. A causa della conseguente reazione con febbre, nei successivi quindici giorni fummo costretti a saltare la libera uscita che era consentita solo nei giorni festivi. In compenso, essendo l’anno delle Olimpiadi a Roma, potemmo seguire molte gare in televisione.
Eravamo stati autorizzati, nelle ore di libertà, a fare il bagno a mare.
Un giorno, mentre, sia pure in fila ma non inquadrati nel plotone, con gli zoccoli ai piedi e gli asciugamani sulle spalle, eravamo diretti verso il mare, incrociammo il Maggiore Devoto, quello che pedalava sulla bicicletta impettito e dritto come un manico di scopa. Ci fermò e chiese chi comandava quel “branco di pecore”; risposi <<Io, signor Maggiore>>, <<E ti sembra questo il modo di marciare …?>> mi domandò, <<… ma signor Maggiore, stiamo andando al mare!>> risposi io. Mi zittì e mi disse di ritenermi consegnato per due giornate, e quindi, ora per un motivo, ora per l’altro, per tutta la durata del corso uscii dalla base una sola domenica.
Ultimata la seconda parte di vacanze scolastiche, riprese dopo l’interruzione dovuta alla frequenza del corso di Allievo Militare, al rientro in istituto ebbi una brutta sorpresa: la destinazione di tutti gli Allievi Militari e degli allievi che frequentavano l’ultimo anno di scuola era la caserma “Fiastri” a Muggiano, una costruzione a picco sul mare, di fronte a Cadimare sul lato opposto del Golfo di La Spezia, verso Lerici.
Era uno stabile senza riscaldamento e senza spazi esterni per poter giocare. Nelle aule erano state collocate delle stufe a legna che ogni pomeriggio, a turno, dovevamo alimentare, scendendo a prelevare la legna al piano terra per poi trasportarla su al piano superiore. Naturalmente, la mensa, i corridoi e principalmente le camerate, in una delle quali, con sette finestre, si sarebbe poi ammalato di polmonite il mio amico Maurizio Marconi, erano fredde e umide. Il Comandante della struttura era il Maggiore Pinto.
Lì, a Muggiano, trovammo i nostri compagni più grandi che, diplomatisi a giugno, erano tornati a La Spezia per frequentare il corso A.U.C. della durata di tre mesi.
Era la morte civile per noi abituati a porre al centro della nostra vita quotidiana lo sport; qualunque disciplina sportiva non era lì praticabile. Inoltre, si mangiava male. La sera il Maresciallo di mensa ci invitava a scegliere la pietanza preferita tra: uova fritte, uova strapazzate, uova sode o uova alla coque!
La domenica mi offrivo volontario per portare la biancheria sporca a Cadimare, questo mi consentiva di poter rivedere compagni e Istitutori rimasti lì; poi nel pomeriggio andavo a Fezzano, nella cui squadra di calcio continuavo a giocare assieme ad altri compagni di collegio, tra i quali Innocenti e Armienti.
Alla fine dell’anno scolastico, ormai quasi completata ed esaurita la nostra condizione di studenti e di collegiali, noi diplomandi, sia allievi che Allievi Militari, in tutto una ventina di ragazzi, ci trasferimmo a Cadimare: dalla stalla alle stelle.
Questo era il posto ideale dove trascorrere i quindici giorni che ci separavano dagli esami di stato che, per lo scritto, prevedevano, oltre la prova di Italiano, anche quella di calcolo delle costruzioni con l’ausilio del manuale del geometra. Tutti gli altri allievi erano tornati a casa per le vacanze estive e nell’istituto, tutto per noi, regnava una tranquillità assoluta; avevamo la massima libertà senza alcun vincolo se non gli orari della mensa.
Organizzati in piccoli gruppi studiavamo con impegno fino a notte inoltrata sostenendoci con qualche tazza di caffè preparato da una “moka” fumante su un tollerato fornellino elettrico abusivo, rimediato non so da chi.
Lo studio di quei giorni rappresentava l’ultimo piccolo sacrificio di un lungo percorso, iniziato anni addietro, che giungeva a conclusione cedendo il passo ad un nuovo e fondamentale periodo della nostra vita durante il quale ciascuno di noi avrebbe dovuto guadagnarsi il proprio futuro.
Consapevole dell’importanza di quei giorni, li vivevo impegnandomi seriamente nello studio, anche se distratto di tanto in tanto dalla musica proveniente da lontano che mi parlava di vacanze, … di mare, … di cuore, … di amore. Con determinazione rituffavo la testa sul libro cercando di concentrarmi e isolarmi, mentre il juke-box del bar in fondo a Cadimare, di lato alla chiesa, nell’ennesimo tentativo di farmi sognare, suonava ancora una volta la dolce musica di “Scandalo al Sole”.