È Rita Paola MARINI che racconta …
Ricordo il mio vestito rosso di lana bouclé con il colletto di pizzo bianco, la mano di mia madre che mi accarezzava il viso, mi dava dei baci, stringeva poi la mia mano nell’attesa del treno. Ricordo il silenzio, le poche parole che c’eravamo dette durante il tragitto, era già stato detto tutto, il perché di questa scelta così dolorosa, la degenza di mio padre in ospedale che si sarebbe protratta a lungo, fino al 1971, il bisogno di un’assistenza continua da parte di mia madre. Ricordo che pensavo che dovevo immagazzinare quegli abbracci, quei baci perché mi avrebbero aiutato nei momenti di tristezza, di malinconia, trattenevo le lacrime per non far soffrire mia madre, aveva un viso molto triste, non riuscii
a mangiare il panino che mi aveva preparato, lo stomaco si era bloccato, ero senza saliva, credo per la paura. Ricordo il primo impatto con il collegio, quelle pareti altissime, quel corridoio largo e lunghissimo fuori dal parlatorio, era tutto tanto grande; ci accolse Suor Bianca e ci lasciò sole ancora per un pò in parlatorio per le ultime carezze e le raccomandazioni finali. Ricordo il taxi di Vincenzo che ci aveva accompagnate, io e mia madre abbracciate che scendevamo la gradinata, l’ultimo abbraccio, la mano di mia madre che mi salutava dal finestrino, io che rincorrevo il taxi mentre scompariva dietro la prima curva del viale. Rifeci quel piccolo pezzetto di viale a ritroso, la sensazione, che ancora ricordo, era di un dolore così intenso da non permettermi di respirare in maniera normale.
Suor bianca mi aspettava in cima alla scala, a quel punto cominciai a piangere a dirotto, lei mi accolse in un abbraccio affettuoso e mi accompagnò a vedere la mia camerata, i famosi “quaranta letti”. Ricordo l’effetto dei “quaranta letti”, non ero abituata alla promiscuità, mi aspettavo una camerata da dieci persone, c’era invece questa piazza d’armi con una miriade di letti azzurri, non so quanti finestroni, pareti altissime, anche qui tutto troppo grande, tutta questa grandezza mi metteva paura, sistemai le mie cose con il suo aiuto,. Ricordo l’incontro con le mie nuove compagne, Suor Bianca mi accompagnò in aula studio e mi presentò, rividi Patrizia, che già conoscevo, e mi arrabbiai con lei in quanto la ritenevo responsabile della mia sventura, lei che veniva d’estate a casa mia a decantare pregi e qualità di questo posto, come se lei c’entrasse in qualche misura con la scelta dei miei genitori, questo chiaramente l’ho capito dopo quando mi ero un po’ calmata.
Ricordo le tante domande delle mie compagne, erano quasi tutte orfane, io potevo ritenermi fortunata: un padre io l’avevo ancora, mi sentivo spaesata, le vedevo allegre, serene, invidiavo le loro risate, la loro complicità; io ero una bambina molto chiusa, riservata e parlavo poco, avevo una specie di corazza di protezione e quindi questo non facilitava né il dialogo, né l’intimità. Ricordo il momento in cui andammo a dormire, avevo un’ansia tremenda, era la mia prima notte fuori casa senza la mia famiglia, l’assistente mi tenne compagnia per un po’, mi incoraggiò per i giorni a venire, poi spense la luce e ricomincia a piangere cercando di mimetizzare il tutto con colpi di tosse. Dormii molto poco, tutto il mio corpo era dolorante per la notte insonne, mi lavai, feci colazione e andai in Villa Bonci per la prima lezione nella mia nuova scuola. Quel giorno fu lo spartiacque che divise la mia vita: un “prima” con una dimensione protettiva ed affettiva ben precisa e un “dopo” … tutto da scoprire cercando di viverlo il più serenamente possibile.
CONTINUA ……