È Luigi POLIDORI che racconta …
Dopo l’esame di terza media, dal quale uscimmo tutti promossi, c’era da scegliere a quale scuola superiore iscriversi.
Uscire dal collegio per andare a scuola in città da esterno, era un traguardo di libertà sognata sin dalla prima media.
Ora che c’eravamo arrivati però, confrontarsi con compagni nuovi, professori nuovi e materie nuove, qualche preoccupazione ce la creava.
Il primo problema era: quale scuola scegliere?
Liceo classico? No! C’è il latino.
Liceo scientifico? Men che meno! C’è anche la matematica!
Liceo artistico? Ecco, sono bravo in disegno, scelgo questo.
Purtroppo avevo fatto la “scelta sbagliata”, a La Spezia non c’era il liceo artistico. Il posto più vicino era Carrara, ma per motivi logistici la direzione del collegio mi consigliò di cambiare indirizzo.
Eravamo negli anni del boom dell’elettronica, e optai per l’Istituto Tecnico Industriale.
Quell’anno, per noi debuttanti alle scuole esterne fu un disastro; anche i più bravi ci lasciarono le penne, gli unici che si salvarono dalla strage furono quelli iscritti a Ragioneria e Geometri.
La Direzione, visti i risultati disastrosi, cercò di correre ai ripari, e quindi l’anno seguente, ci ritrovammo tutti insieme a frequentare l’Istituto Tecnico Industriale all’interno del collegio. L’esperienza da “esterni” era finita miseramente! Avevamo fatto appena in tempo a prendere una boccata d’aria, che ci ritrovammo di nuovo in isolamento!
L’amico Augusto Di Pasquale, quando a distanza di anni ricordavamo quell’anno disastroso, sentenziò che la colpa non fu nostra, ma «Fu colpa del sistema». Anche se non avevamo ben chiaro “il perché”, fummo tutti d’accordo.
Torniamo all’anno precedente, quello del 1º I.T.I. esterno, a La Spezia; a parte il finale inglorioso, di quell’anno ancora oggi serbo un bel ricordo. Mi trovai in classe con Mario Sciascia e Renato Zorzan, con Mauro eravamo compagni di banco, io fui nominato capoclasse e lui vice in virtù della nostra divisa.
La prima e la seconda classe dell’I.T.I. erano nella sede distaccata in viale Italia costituita da un prefabbricato che avevamo battezzato “le baracche”. eravamo al livello della strada e le finestre erano talmente basse che potevamo tranquillamente entrare e uscire da lì, anziché dalla porta.
Durante l’intervallo, un bar vicino mandava un suo ragazzo con una cesta di pizzette e focacce, che ci venivano vendute direttamente dalla finestra dell’aula.
A noi del collegio, la mattina, dopo la prima colazione e prima di salire sul pullman per andare a scuola, ci veniva dato un bel panino con la mortadella per la merenda. Non tutti lo prendevano e molti panini restavano sul tavolo. Io e Mauro, notata la cosa, fiutammo l’affare. Essendo compagni di banco, era superfluo portare due libri uguali per una stessa materia, ne bastava uno, quindi stabilimmo: una sacca per i libri e l’altra per i panini. Si cercava sempre di uscire per ultimi dalla mensa in modo da recuperare tutti i panini rimasti e riempire la sacca.
Noi offrivamo i nostri panini ad un prezzo competitivo rispetto alla pizza e focaccia del bar e tanti compravano da noi, spesso vendevamo anche il nostro panino per poi comprarci la focaccia. Gli affari andavano bene e così potevamo permetterci il lusso di comprare regolarmente “la Gazzetta dello Sport” e offrire il gelato e il cinema alle nostre ragazze nelle libere uscite domenicali.
Ma torniamo in classe. L’amico Renato, dopo il secondo trimestre, visti i voti in pagella si arrese, decise che era inutile continuare a studiare e a nulla valsero i nostri incoraggiamenti a non mollare. Nella sacca portava qualche libro, ma ciò che non doveva mai mancare erano le bacchette e le spazzole per “suonare” la batteria. Si ritirò all’ultimo banco in modo da non disturbare e potersi dedicare alle canzoni del suo grande idolo: Nicola Arigliano. Cantava sottovoce accompagnandosi con il ritmo delle spazzole che strusciava sul banco.
Per quanto facesse piano, in un’occasione la sua melodia giunse all’orecchio del professore di matematica Pierino Gianni Trapani che, guardando nella sua direzione , esclamò: «Chi è che canticchia là in fondo?». Renato posò sul banco le spazzole, si alzò in piedi e col tono risentito di chi ha una dignità da difendere, puntualizzò: «Prego, io non canticchio: Io canto!».
La porta era vicino al suo banco per cui ci mise poco a eseguire l’invito a uscire di classe. Da quel giorno, quando entrava Pierino Gianni Trapani, lui, se voleva, era autorizzato a uscire.
Dell’insegnante di matematica mi è rimasto il ricordo dei suoi voti che andavano dal meno due al sei, gli altri insegnanti non me li ricordo proprio, ad eccezione di quella di lettere. Era una giovane napoletana mora, simpatica e carina che indossava spesso gonne piuttosto corte. La cattedra era di quelle aperte sul davanti e lasciava ben visibili le gambe di chi vi era seduto. La Paparelli, così si chiamava la professoressa, aveva l’abitudine di accavallare le gambe e , così facendo, la gonna già corta saliva ancora di più, offrendo uno spettacolo molto apprezzato da tutta la classe, in particolare da quelli al primo banco che godevano di una posizione privilegiata.
Non so se fosse una sua strategia ma sta di fatto che durante le sue ore di lezione riusciva ad ottenere l’attenzione di tutta la classe. Un giorno, assente un compagno del primo banco, io, che ero in terza fila, volli approfittare dell’occasione e , durante la lezione della Paparelli, andai ad occupare il posto libero.
La professoressa mi chiese: «Polidori, … perché hai cambiato posto?». Io, non pensando alle conseguenze, risposi: «Per vedere meglio!». Dalla classe si levarono malcelate maliziose risatine che non scomposero di una virgola la Paparelli la quale continuò tranquillamente la sua lezione senza fare una piega.
Sarebbe stato meglio restare al mio posto! Per tutta l’ora seguii, forse con più attenzione del solito, la lezione e non sfruttai la postazione privilegiata, non ebbi il coraggio di dirigere nemmeno per un attimo lo sguardo là dove mi sarebbe piaciuto.