È Sergio SOPRANI che racconta …
… Arrivati a S. Maria Novella un pullman ci portò ad un incrocio e ci lasciò ai piedi di una stradina che si inerpicava verso la nostra meta, io stavo per entrare in collegio e mi accompagnava uno dei miei zii in quanto mia madre era impegnata nel lavoro o forse aveva preferito così, era la prima volta che mi allontanavo da lei… Al termine di una salita estenuante, proprio in cima alla collina, c’era il cancello di ingresso, alla porta dei militari che salutarono alla loro maniera appena mio zio chiese se fosse quello il collegio “Umberto Maddalena”. L’ingresso, un giardino con aiuole e vialetti in ghiaia tra siepi basse con in fondo un edificio enorme mi parve maestoso e un brivido mi corse per la schiena, sarei dovuto restare li dentro?… E per quanto tempo?…
… Arrivammo in quello che poi seppi era il Parlatorio, l’accettazione… …il collegio era condiviso con i seminaristi, ma tra noi e loro non ci fu mai occasione di incontro tranne che per qualche partita di pallone da loro peraltro sempre persa.
… Il porticato del piano terra correva lungo tutto il campo di calcio, ad una estremità si andava alla mensa e all’altra estremità si andava verso una scaletta secondaria che portava verso le camerate, al di là del campo di calcio, ma parallelamente ad esso, c’erano il campo di pallacanestro e quello di pallavolo, al di là ancora c’era la siepe del contadino, dietro al campo di calcio c’era una zona lasciata a verde e la siepe che circondava il muro di cinta del collegio.
Il guardaroba era uno stanzone enorme, su una delle pareti era stato costruito un alveare di cellette quadrate e numerate ognuna delle quali conteneva la biancheria di ciascuno di noi e le signore avevano provveduto a cucire su ogni capo il numero identificativo personale, così su tutta la mia biancheria c’era il mio numero personale e non poteva essere confusa con la biancheria di altri. In guardaroba si potevano anche tenere piccole cose che in camerata non era possibile mantenere quali piccoli ricordi di casa e forse qualche dolcino avuto da familiari. L’accesso al guardaroba era permesso solo in rare occasioni e limitato alla salita sulla scala per raggiungere la propria celletta e prelevare o depositare qualcosa.
Il sabato si faceva la doccia ed il cambio della biancheria. Il problema era che le docce si trovavano nella parte dei seminaristi e bisognava recarsi lì inquadrati spogliati con gli asciugamani da bagno legati alla vita con gli istitutori che a stento riuscivano a mantenere un certo ordine, ma se per caso si incontrava un seminarista apriti cielo! Ed immancabilmente a qualcuno cadeva o lasciava cadere l’asciugamano della pudicizia…sotto le docce un vociare, un cantare una serie di reclami per la temperatura troppo calda…troppo fredda…non arriva l’acqua…ma alla fine era sempre troppo poco il tempo di doccia per tutti…
Poi venne la moda della radio galena. Si compravano i pezzi dagli allievi che frequentavano le scuole esterne e si montavano con la tecnologia del passaparola…Allora: c’era la bobina fatta su un rotolo di carta igienica (la parte di cartone finale) con 35 poi 45, 10 e 15 spire di filo, si iniziava con la presa di terra e si finiva con la presa d’antenna, ognuna delle prese intermedie della bobina erano connesse ad altrettante boccole, poi si collegava il detector a germanio, il condensatore a mica da 500pf e la cuffia ad alta impedenza, si collegava l’antenna al termosifone e la terra alla rete della branda, il tutto montato in portasapone…e funzionava, senza pile. Il filo per arrivare al termosifone lo avevo fatto passare nell’intercapedine delle mattonelle del pavimento ricoprendo lo scavo con del sapone. Avevo escogitato un bel metodo di ascolto, avevo separato gli auricolari e ne tenevo uno dentro la federa del cuscino così sembrava che dormissi. Era un bel modo di passare la notte ascoltando sia il primo che il secondo programma, ma poi mi venne ritirata e addio a notti insonni.
Poi venne la moda dell’armonica a bocca…è lì che ho imparato, naturalmente e rigorosamente ad orecchio…Era di moda il “Piccolo” della Honner nelle varie tonalità C o G, si suonava durante la ricreazione e così vennero fuori le varie canzoncine…oh Susanna…ciliegi rosa…poi venne l’Honner a “banana” ma troppo ingombrante e con suono troppo mellifluo, ma il clou fu l’Honner con il cambio, ancora oggi ne posseggo uno e mi diverto a strimpellare musiche inventate suonate al buio ed in solitudine.
Diventato più grande i miei decisero che dovessi iscrivermi al liceo scientifico e così anch’io iniziai a frequentare il liceo esterno a Firenze ed imparai anch’io a fare qualche filone e scoprii la malattia dei filonisti, la famosa “antenopatia ilare” che qualche buontempone si era inventata ma che funzionava alla perfezione…