È Ezio BOSCO che racconta …
Queste località mi hanno insegnato ad amare le Dolomiti, lì arrivai che avevo otto anni, mio padre, Maresciallo Pilota, ci aveva lasciati, noi otto fratelli e sorelle, poco meno di un anno prima.
In quel luglio del 1955 ci allontanammo da casa per la prima volta, con un pullman dell’Aeronautica che ci lasciò presso la colonia dell’O.N.F.A. confinante con un piccolo aeroporto dal quale quasi ogni mattina, preannunciato da un fortissimo rumore, decollava un vecchio S79 meglio conosciuto come il “gobbo maledetto”. Per due anni consecutivi ebbi modo di trascorrere una bellissima vacanza montana che mi fece amare le Dolomiti allora come tutt’ora. Non ho molti ricordi ma due in particolare li voglio raccontare. La colonia era proprio di fronte alla stazione ferroviaria di Dobbiaco e una mattina, durante la cerimonia dell’alzabandiera con l’Inno di Mameli a tutto volume e noi piccoli allievi schierati sull’attenti, una persona anziana, dall’altra parte della rete di recinzione e vicino alla stessa, continuava imperterrita a falciare l’erba.
Terminata la cerimonia, vedemmo la signora Direttrice precipitarsi verso quell’uomo cui chiese se era italiano; avendone avuta conferma gli fece una sonora lavata di testa ordinandogli con tono autoritario di togliersi il cappello dal capo e mettersi sull’attenti ogni volta che veniva suonato l’Inno, cosa che il malcapitato fece poi con solerzia tutte le successive mattine quando presente nel momento dell’alzabandiera.
L’altro avvenimento che mi rimase impresso è quanto accadde un giorno, durante una passeggiata alle falde del “Cima Nove”. Un piccolo capriolo, strozzato da un laccio un cui capo era fissato al tronco di un albero, giaceva immobile per terra privo di vita. Una trappola evidentemente allestita da un cacciatore di frodo. Dopo la spiacevole sorpresa iniziale e la successiva esitazione, subentrò in noi ragazzi la decisione, con il beneplacito dei nostri accompagnatori, di portare in paese, anzi, in colonia, i resti della povera bestia.
Recuperammo un lungo e robusto bastone cui assicurammo la bestiola dopo aver legato insieme le due zampe anteriori e poi le due posteriori, così come avevamo visto fare dai nostri eroi nei fumetti. Issato sulle nostre spalle il bastone con il suo carico penzolante, ci incamminammo sulla via del ritorno con lo spirito di chi stava vivendo un’inattesa, incredibile, grossa avventura di caccia.
Il nostro esaltante rientro in paese, con i curiosi che stupiti si avvicinavano facendo mille domande e si accodavano al nostro corteo di prodi, fu bruscamente interrotto dalla guardia forestale che, giunta sul posto, si appropriò del nostro trofeo privandoci di quello che sarebbe stato sicuramente un trionfale rientro in colonia. Poveri nostri sogni di gloria di grandi cacciatori in erba!
Dall’anno successivo fummo trasferiti, per il periodo estivo, presso la colonia di Monguelfo. Bellissima, era una costruzione grande e quasi tutta in legno, era una ex residenza di caccia dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe.
Periodo meraviglioso dove passai vacanze bellissime e imparai a cercare funghi sotto la guida del Maresciallo Mannuci; per me, da allora, finferli, porcini e mazze di tamburo non ebbero più segreti. Ricordo con tanta nostalgia le scorpacciate di panna, fragole e mirtilli alla Gailerhof (Gaila) un maso in mezzo al bosco ma poco distante dalla colonia, ricordo inoltre che dal retro della colonia, seguendo il sentiero nr. 35 si poteva arrivare con qualche ora di cammino e non poca fatica al meraviglioso Lago di Braies
Nel 1964 non potei recarmi sulle Dolomiti perché a Cadimare dovetti frequentare il Corso per Allievi Militari, ma l’anno successivo fui comandato di servizio a Monguelfo e mi fu affidata una squadra di ragazzi … da allievo a Istitutore! Quello fu un anno difficile a causa dei terroristi alto-atesini che operavano nella zona, ci furono anche due Carabinieri uccisi a Sesto Pusteria, bisognava stare sempre sul chi va là e mai uscire da soli, specialmente di sera. A tal proposito voglio raccontare un fatto.
Io dormivo in una cameretta per due che dividevo con Maurizio Gari. Una sera non si era presentato a cena, e alle nove e mezza ancora non arrivava in camera; non sapevo cosa fare, poi finalmente, piuttosto preoccupato, decisi di avvertire l’allora Maggiore Marchetti, mi alzai quindi dal letto e aprii la porta per uscire. Là fuori, Maurizio, piegato in due non riusciva a respirare; lo presi di peso, lo distesi sul suo letto e dopo avergli dato un bicchiere d’acqua, riuscii a farlo parlare. La storia? Aveva conosciuto una ragazza cui aveva dato appuntamento per le otto presso il Bar della fontana dietro la chiesa. Questa (la ragazza) non si era fatta vedere e, quando era diventato buio, lui ormai rassegnato, aveva deciso di rientrare e si era avviato sulla ripida salita che dal paese portava alla colonia. Non c’era una luce e il buio era davvero impenetrabile. La strada, fiancheggiando il bosco si inerpicava verso l’alto con una salita dura e faticosa che obbligava al passo lento del montanaro. Per un terrorista, sarebbero state le condizioni ideali per un possibile agguato a un isolato militare italiano!
Maurizio, parecchio preoccupato, nel timore di brutti incontri, aveva tirato fuori dalla tasca la pipa impugnandola nella destra a mo’ di pistola e si era fatto tutta la lunga salita di corsa fino in colonia! Stette male per due giorni sopportando stoicamente in silenzio non solo il dolore fisico, ma anche tutti i miei ripetuti rimproveri.
Nel 1967 mi congedai dall’Aeronautica ma non mi congedai mai dalla Val Pusteria; mia moglie ed io ogni estate tornavamo a Monguelfo. Nel 1973 ci sposammo e nel 1977 nacque nostra figlia Roberta, comunque ogni anno le nostre ferie estive continuarono a svolgersi a Monguelfo. Circa quattro anni dopo la nascita di Roberta, nell’ultimo giorno di vacanza estiva (a Monguelfo) prima della ripartenza, mi alzai presto, alle sei di mattina, per l’ultima raccolta di funghi. Uscii da solo con il mio cestino, dopo aver indossato pantaloni in velluto a coste di colore scuro e un maglione blu girocollo sotto il quale si evidenziava il bordo di una camicia bianca. Anche in quell’epoca avevo una bella barba lunga e ben curata.
Verso le undici, dopo aver ultimato la mia copiosa raccolta, mi fermai alla Gaila per bermi una birra prima di tornare in albergo per il pranzo. Mi sedetti ad un tavolino, un paio di metri più in là c’erano sedute due signore, una un po’ più anziana e l’altra più giovane, che parlavano fra di loro con accento toscano. Non le conoscevo. Mentre mi dissetavo centellinando la mia birra sentii che una diceva all’altra: <<Anche i frati vanno a funghi.>> Io non dissi niente e rimasi indifferente. Dopo circa un quarto d’ora, finita la birra, mentre mi alzavo per avviarmi sulla via del ritorno in paese, la più anziana mi si rivolse dicendomi: <<Scusi Padre, ha trovato qualche cosa?>> Le feci vedere il cestino: <<Ben poca cosa … >> le dissi minimizzando, e lei: <<Che Dio sia lodato!>> e io: <<Grazie … e che Dio vi abbia in gloria>>. Nel pomeriggio, poco prima di cena, mentre mia moglie preparava le nostre valigie, presi per mano mia figlia e ci avviammo per una passeggiata nel centro del paese; qua accadde l’incredibile. In piazzetta c’erano tre uomini che parlavano fra di loro, io ero alle loro spalle. Sentendone parlare uno, ne riconobbi immediatamente la voce – dopo oltre dieci anni – e senza avvicinarmi, a voce alta dissi: <<Oh Santini che tu fai?>> e lui senza girarsi mi rispose: <<Oh Bosco, ma non hai ancora finito di
rompere i hhoglioni?>> Solo allora si girò e, ridendo come matti, ci abbracciammo. Poi mi disse: <<Domani vieni a pranzo
da me alla Pensione al Lago di Valdaora>>. Ma dovetti declinare l’invito spiegandogli che l’indomani saremmo partiti molto presto, e così ci accordammo per un grappino dopo cena la sera stessa. Valdaora è molto vicina a Monguelfo e quindi dopo cena, presa l’auto, in pochi minuti raggiungemmo la pensione sul lago dove lui alloggiava con moglie e figlia.
È difficile trovare le giuste parole per descrivere l’espressione delle due donne quando ci videro entrare.
Non solo i frati andavano a funghi, ma questo aveva pure moglie e figlia! Quale poteva essere la reazione delle due signore che al mattino, per la barba e l’abbigliamento, e grazie anche al mio goliardico favoreggiamento dell’equivoco, mi avevano scambiato per un frate??? Non ci conoscevamo, chi avrebbe mai potuto immaginare che ci univa una comune appartenenza? Loro moglie e figlia, io ex allievo del vecchio Istitutore! Grandi e ripetute risate a non finire fino a tardi. Secondo me, il Maresciallo Santini, a forza del gran ridere per tutta la serata, quella volta dev’essersela fatta nelle mutande.
Ho letto fino alla fine questo racconto di Ezio Bosco e pur apprezzandone le profondità di descrizione e le minuzie di particolari , ciò che mi ha meravigliato tanto è stato il ritorno di Ezio Bosco che conoscevo qualche anno fa . Grande Ezio sei unico .